ALLOCUZIONE DEL PRIMO AGOSTO
Care cittadine e cari cittadini,
oggi festeggiamo la nostra festa nazionale. Si festeggia qualcuno o qualcosa
quando è importante per noi, per significargli il nostro attaccamento. Ma oggi,
inutile negarlo, l’attaccamento alla nostra nazione non sembra della stessa
intensità come, per esempio, nel primo dopoguerra.
Nessuno di noi parlando dice patria, anzi il termine sembra in disuso
persino nei discorsi commemorativi del 1. Agosto. Non possiamo dire di
identificarci nella nostra patria nello stesso modo delle generazioni che ci
hanno preceduto. Non è una colpa, il fatto è che stiamo attraversando un’epoca
diversa.
Oggi le frontiere sembrano aver perso l’importanza che avevano. Ma il bisogno
di sentire che apparteniamo ad paese, ad una regione è nella natura degli
uomini. La nostra voglia di frontiere più aperte convive con il bisogno di
identificarsi, di sentire che essere di un posto, ha un senso per noi. Ma
potersi identificare non è così evidente, o almeno non lo è più.
In un certo senso dobbiamo ricostruire questo rapporto tra noi e la nazione, tra
noi e lo Stato. L’epoca che stiamo attraversando non ci aiuta affatto. Alcuni
tra noi identificano lo Stato sempre più come sinonimo di burocrazia, di
ingombrante apparato amministrativo e come tale nemico del cittadino. Vedono lo
Stato come ostacolo alla libertà del cittadino e un predatore di guadagni
privati. Se dello Stato si parla sempre in questo modo non bisogna stupirsi se
certuni cominciano a faticare nel sentirsi parte di una nazione.
Sul prato del Grütli i primi Cantoni Svizzeri hanno stipulato un patto di
reciproca assistenza. In fondo lo Stato è questo. Un patto di reciproco aiuto
stipulato tra i cittadini. Solidarietà nel caso di bisogno, sicurezza nel caso
di pericolo. Questa è l’idea originale dalla quale dobbiamo partire per
ricostruire il senso di appartenere alla nazione. Identificarsi vuol dire essere
pronti ad impegnarsi per gli altri, sicuri che altri lo faranno per noi. Lo
Stato non è nemico del cittadino, quello che appartiene allo Stato appartiene a
tutti i suoi cittadini. Ma lo Stato deve essere chiaramente limitato, definito:
non può e non deve fare tutto per tutti.
Spetta ai cittadini stabilire quali sono i compiti dello Stato. Ci sono compiti
che devono o possono essere assolti al meglio individualmente, privatamente.
Altri compiti coinvolgono invece il bene di tutti o il patrimonio di tutti,
inteso per esempio come risorse umane, territorio o patrimonio ambientale. Dare
ad ogni giovane le stesse chances di partenza, educandolo, istruendolo e
curandolo è nell’interesse di tutti, perché la ricchezza delle nazioni
dipende, soprattutto oggi, dalla ricchezza delle sue risorse umane che non vanno
sprecate. Fare giustizia e garantire la pace sono compiti che il singolo non
può assolvere, devono essere delegati allo Stato.
Ci sono però ambiti dove lo Stato non deve necessariamente essere attivo,
perché non vi è un interesse pubblico prioritario. Se potessimo ridiscutere il
patto iniziale, se fossimo noi, adesso, sul prato del Grütli cosa chiederemmo
allo Stato? E cosa saremmo disposti a dare alla nostra nazione?
Questa è la discussione più importante che occorre affrontare, con la massima
serenità, certo anche con inevitabile conflittualità, perché si tratta di
coniugare i molti interessi in gioco. Ma il discorso sul ruolo dello Stato,
sulle dimensioni dello Stato, non può essere trascinato. Della nostra nazione
occorre immaginare il futuro, vedere un progetto.
Nel nostro cantone, come nel resto della Svizzera non se ne parla abbastanza.
Chi ne parla lo fa per conto suo. Come se si trattasse di scavare trincee,
invece che costruire ponti. Questa discussione potrebbe iniziare in Ticino,
perché in molti ambiti questa contrapposizione tra Stato e privati è molto
sentita. Invece siamo al centro dell’attenzione per una serie di avvenimenti
che in realtà coinvolgono solo alcune persone singolarmente, non già i
ticinesi come popolazione. Non serve a nulla rispondere che non siamo capiti o
che abbiamo un problema di immagine. Non credo sia una questione di immagine. La
questione è un’altra, il fatto è che il nostro cantone sta cambiando e non
è facile leggere una realtà che cambia velocemente.
Sul Ticino convivono da sempre almeno due leggende: una che ci vuole
fondamentalmente generosi, socievoli e creativi, la terrazza soleggiata della
Svizzera. L’altra leggenda si compiace nel trovare debolezze, pigrizia e
mancanza di scrupoli e intrighi. Le leggende si sa, sono dure a morire.
In realtà ogni tentativo di forzare
il Ticino in una descrizione lo allontana dalla Svizzera, ne fa un caso
particolare. Ma il Ticino non è, e non vuole essere, un Sonderfall. È
vero invece che il Ticino sta trasformandosi, ma è quello che sta succedendo
anche al resto della Svizzera; e la realtà è troppo complessa, poco
prevedibile per dare una risposta univoca. Meglio non tentare semplificazioni.
Anche se può apparire paradossale, direi che trovare la risposta alla domanda
"dove sta andando il Ticino?" è meno importante del fatto stesso di
porsi la domanda. Vorrei dire che per adesso è più importante porsi la domanda
che trovare subito la risposta. Tanto più se lo facciamo guardando in avanti,
chiedendoci: "dove dovrebbe andare?". Il Ticino non vuole essere un Sonderfall,
come di fatto non lo è neppure la Svizzera.
In Ticino, come in Svizzera, la storia - se la leggiamo attentamente, senza
farci fuorviare dalle leggende- ci dice che abbiamo potuto raggiungere un alto
tenore di vita e di indipendenza non perché siamo un caso particolare, ma
perché abbiamo lavorato sodo: per una solida concordanza tra ideologie diverse,
tra interessi diversi e tra le diverse regioni linguistiche. Abbiamo raggiunto
tutto questo grazie alla continua attenzione, per le condizioni di vita dei
cittadini. Chi ci ha preceduto ha scommesso sull’innalzamento del livello di
vita della popolazione, di tutta la popolazione, non solo come benessere
materiale a breve termine, ma come attenzione per la scolarizzazione dei
cittadini, come attenzione per il loro benessere psicofisico. Da sempre la
Svizzera ha capito che sarebbe stato vincente, in un paese senza risorse
naturali, puntare sulle risorse umane. Questa scommessa vinta ha fatto della
Svizzera "la storia di un successo", per riprendere il titolo
di una recente pubblicazione dello storico basilese Georg Kreis. La particolare
sensibilità per il livello di istruzione dei cittadini è da secoli radicata
nella nostra storia: già a partire dal XVI secolo la Svizzera ha una vera e
propria tradizione pedagogica (Rousseau, Pestalozzi, Piaget e altri). Lo stesso
si può dire dell’attenzione per le condizioni di salute della popolazione: è
proprio la Svizzera a diffondere con entusiasmo in tutto il mondo la più
umanitaria delle istituzioni sanitarie: la Croce Rossa.
Un altro storico -mi rendo conto che è già il secondo che cito, ma la storia
serve proprio a capire dove stiamo andando - Jean François Bergier, ha scritto:
"la persona umana è sempre stata la dimensione della società
svizzera, costituita da comunità ristrette e solidali nelle quali
avevano una funzione ogni testa e ogni paio di braccia. L’idea di nazione
fondata sulla volontà, una volontà che è necessario istruire".
Potremmo aggiungere che il resto viene da sé: la dignità, la volontà quindi
di migliorare le condizioni di vita di tutti, la capacità di apprezzare i
vantaggi duraturi di un sistema politico di concordanza.
È questa la Svizzera nella quale non ho difficoltà a riconoscermi.
La Svizzera come tema di una grande tradizione morale, umanistica e umanitaria.
E il Ticino ? Il Ticino si è da sempre riconosciuto in questa tradizione, a
volte addirittura precorrendo i tempi, altre volte sostenuto dalla
Confederazione. Con la fragilità di chi ha dovuto muovere i primi passi in
condizioni di povertà e dipendenza.
Ma anche con l’entusiasmo di chi vuole arrivare lontano. Se l’obiettivo è
quello di indirizzare in pace e prosperità il futuro del Cantone e della
Confederazione, il Ticino non ha bisogno di leggende. Certo l’obiettivo non
può essere solo quello del guadagno immediato. Limitarsi alla ricchezza
immediata induce solo un grande senso si provvisorietà. Si tratta di saper
anticipare, immaginare il futuro del nostro paese.
Lo diceva Max Frisch nel 1955: "gli svizzeri hanno sempre paura del
futuro perché vivono senza piani, senza un progetto per il futuro del
paese". Il mio augurio a tutti noi è questo: di avere l’entusiasmo e
la capacità di pensare al futuro del nostro paese, come luogo nel quale ci
identifichiamo, pensare al futuro come progetto. Che è poi, in altre parole, la
fiducia nel futuro.
Patrizia Pesenti
Consigliere di Stato
Lugano, 1. Agosto 2000